GIORNO SEI, Autunno

Scrocchiano le foglie color cioccolato
Sotto i piedi dei passanti
Lasciano un riverbero di speranza
Le venature verdastre.
Tira forte il vento
A scompigliare capelli
E a raffreddare cuori
Concedendogli l’occasione di esser stretti
Per essere riscaldati.
Fumano tazze di tè
Mentre continuo ad innamorarmi di te,
Schioccano baci sempreverdi
Mentre ci stendiamo su tappeti di foglie morte
Che vibrano della nostra vita.
Il cielo è più rossastro
L’autunno ci abbraccia il cuore
Per noi
È la stagione dell’amore.

GIORNO QUATTRO, Rosa

Ho due rose appassite
Appese in cucina
Regalo di un amico
Che in quindici anni
Non m’ha mai regalato niente
A parte
Sorrisi
Abbracci
Rum
Whisky
Ultimamente vodka
Qualche cazzotto
Un paio di baci
E un sacco di morsi.
Mi ha asciugato le lacrime,
Soprattutto.
Due anni fa ho buttato
Una rosa appassita,
Quella che mi avevi regalato tu,
Quella che aveva fatto un volo
Intercontinentale
Per arrivare a me,
Schiacciata in una valigia
Tra le pagine di una rivista
A riprova che tu
Sapevi mantenere le promesse.
Il punto è che tu
Non mantieni proprio un cazzo
E se vuoi saperla tutta
Io con te non sono mai venuta
E questo non è un problema mio
Solo egoismo tuo
Ed anche poca roba
Se proprio vogliamo dirla tutta.
Allora io due anni fa
Quella rosa l’ho buttata
Perché meglio la rosa di un amico
Che ti fa sorridere
Che la rosa di un amante
Che non sa manco farti venire.

GIORNO TRE, Ispirazione

Ho pensato tanto

Per farmi venire l’ispirazione,

Ho passeggiato a piedi nudi

Sul pavimento blu

Di casa nostra

Sorseggiando niente di speciale

Solo acqua fredda

Fingendo fosse whisky.

Ho pensato di dover attendere

La notte

La mia amata oscurità solitaria

Brindando alla calda luce

Della lampada sulla scrivania

Sporcando di Bordeaux francese

La moleskine che fa scrittrice.

Poi mi sono ricordata

Che quando scrivo qualcosa di bello

È perché parla di te

E quindi c’è poco da fare

Quando l’ispirazione è una persona:

Devi soltanto attendere

Le parole giuste

Per dire

Quello che vuoi dire

Che poi è ovvio che

Quelle che sanno di te

Sono le mie preferite.

GIORNO DUE

ARTE

Sfoglio vecchi libri di scuola

In cui Argan

Sciorina critiche poetiche

Su opere meravigliose

Alcune delle quali ancora non capisco.

Cita il Vasari, illustrissimo,

E io leggo e cerco e ascolto

Ammirata e spaventata

Piena di ossequioso rispetto.

Poi apri una finestra

E – sbam!- tutti sanno tutto

Tutto conoscono e criticano

E millantano studi autodidatti

Sull’Arte.

Io sto zitta e non mi espongo

Alzo il mio bicchiere di Bordeaux

E brindo ai saccenti

E alla mia ignoranza

E mi ubriaco in silenzio

Di arte libri e Bordeaux

Che come dice un caro amico

“l’arte è per gli ubriaconi”

Non per i chiacchieroni, aggiungo io.

Anche se io chiacchiero tanto

Ma forse mi ubriaco di più.

GIORNO UNO

Ogni giorno della nostra vita è segnato da una parola in particolare, una che urla più delle altre per un motivo o per l’altro.

La mia oggi è NOSTALGIA.


Remo contro il tempo

Contro il vento
Cerco di recuperare immagini
Frammenti di abbracci.
Trovo mozziconi di Winston
Rigorosamente Blu
Tazzine con fondi di caffè
Peccato che io preferissi
Le Lucky Strike
Rigorosamente Rosse
Rigorosamente morbide.
Non capisco cosa ancora mi fa male
Forse il punto mai messo
A dire la verità neanche un punto e virgola
Ma nemmeno una virgola
È stato tutto così
Un ardersi subito
Sin da subito
Che subito si è spento.
Beh subito un corno,
Quanti anni a sospirarsi
Ad aspettarsi
A telefonarsi
A dirsi addio
A ritrovarsi
Che nel buio della notte
Ci siamo sempre sentiti più vicini
Più felici.
Poi più niente
E io non ti ho detto niente.
Io non ti ho detto mai niente
Neanche quando t’amavo follemente
Non te l’ho mai detto
Che avrei corso a piedi nudi
Il Confine
La Muraglia Cinese
Il Polo Nord
Se fosse stato necessario.
Se solo fosse bastato.
E allora non ti ho detto niente
Neanche quando te ne sei andato
Senza neanche un sorriso
Senza neanche un abbraccio.
Non ti ho detto niente
Del mio cuore spezzato
Delle lacrime versate
Dei Jack e Coca senza Coca
Delle notti al lago.
Sola.
È solo che il Se
Mi perseguita:
Chissà come sarebbe andata Se…
Chissà come sarebbe andata Se
Avessimo avuto le palle
Di dire
O di fare
O semplicemente
Se avessi avuto le palle
Di mandarti prima a quel paese
Ché le avventure sono belle
Ma quando durano troppo
Diventano vita
E la vita non è mica sempre bella.
E neanche tu.

Realtà

Avrebbero detto di me

“La grande assente”

In questo giorno in cui ci sono

Così tanti riflettori

Accesi.

Ma questo sarebbe accaduto

Solo se fossimo stati nei film della

Mia memoria

O in un mondo in cui

Io ho ancora una certa importanza.

Ma dato che siamo nella realtà

Nessuno fa caso alla mia assenza.

Parlar d’amore

Io non so parlar d’amore

O forse sì

Il dubbio c’è e si vede

Poiché se d’amore parlo

Parlo di te

Che mi massaggi i piedi

Sorridendo sornione

E mi prendi in giro mentre

Leggo biografie apocrife con le labbra

Sporche di Nutella.

Io pensavo che l’amore

Vero

Fosse struggimento

Poi

Ti ho incontrato

E ho imparato che l’amore è

Io e te che facciamo

Sesso sfrenato

Mangiando a perdifiato

Ridendo a crepapelle

E amandoci come se fossimo

L’unica coppia felice

Del mondo.

La storia.

La storia.

Date, avvenimenti, guerre, fazioni, vincitori, vinti, monumenti, idee, rivoluzioni, evoluzioni, misteri.
La Storia, la nostra storia è davvero meravigliosa. Ma quante volte, tra i banchi di scuola avremmo preferito essere altrove piuttosto che ascoltare le noiosissime lezioni di storia che l’insegnante ci propinava con tono soporifero?
Però, stranamente, ad un certo punto, sul piccolo schermo compare un signore che ci parla dei dinosauri e del mare e dei pesci e dell’evoluzione dell’uomo e della letteratura e delle invenzioni e dell’arte e della scienza. Ci parla di queste cose e noi ascoltiamo incantati e ci vien voglia di sapere di più. Quell’uomo diventa il nostro zio d’oltreoceano, quello con le storie fighe da raccontare, quello che ci fa imparare le cose ma stranamente senza farci annoiare. Poi insieme a lui arriva il figlio, affascinante, voce calda, avventuroso, capelli morbidi, braccia possenti ed assolutamente interessante.
E tutta La Storia diventa bellissima.
Padre e figlio sono Piero ed Alberto Angela, due istituzioni ormai.
Piero, mancato jazzista, giornalista e poi divulgatore scientifico è entrato nelle nostre case in punta di piedi: da inviato a cesellatore di Quark.
Poi la volta del figlio (che, ammetto, per una questione prettamente fisica preferisco): Alberto studia in Francia, in Italia, in America. Da studioso svolge con passione ed entusiasmo il suo lavoro, poi approda alla tv svizzera finché con Albatros conquista anche i cuori italiani. Da quel momento in poi, Alberto e Piero diventano il punto di riferimento per ogni avventura.
Grazie ai loro programmi impariamo, viaggiamo, scopriamo.
Poi arrivano anche i libri.
Ed io li divoro.

Ora, a ventisei anni, con un’indipendenza economica piuttosto precaria, la maggior parte dei miei introiti evapora tramite l’acquisto impulsivo-compulsivo di libri e qualche weekend in città d’arte, Roma su tutte.
Ogni tanto qualche evento chiama, ha bisogno di essere raccontato e qualcuno ha bisogno d’essere incontrato.

Domenica 29 dicembre 2015.
Le domeniche sono il mio punto forte, mi saldano ancora di più al mio stato malinconico.
Ci sono alcune cose che aspettano di essere trascritte su un file Word, ma indugio ancora un po’ tra le voci di Frank Sinatra e Dean Martin.
Un rapido controllo dei tweet e una capatina su Instagram, poi un giro veloce sulla Home di Facebook.
Ovviamente, ciò che subito mi salta all’occhio è la copertina del nuovo libro di Alberto Angela “San Pietro: segreti e meraviglie in un racconto lungo duemila anni” (http://www.ibs.it/code/9788817084239/angela-alberto/san-pietro-segreti-e.html nel caso vogliate acquistarlo…e ve lo consiglio!), che oltretutto è l’ultimo arrivato sul mio comodino in quei giorni.
Il fan club ci informa che Alberto Angela presenterà il suo libro alla Feltrinelli di Roma, quella in via Appia il mercoledì successivo alle 18.
Certo, la notizia è fantastica, Roma non è poi così lontana, alle 18 poi… sì, ce la posso fare, stacco da lavoro alle 14 e corro a prendere il treno.
Ma le titubanze sono molte: in fondo sono sicura di volermi precipitare a Roma soltanto per sperare in un incontro che potrebbe non avvenire?
No, infatti. Lasciamo perdere. Oltretutto è mercoledì. Fosse stato nel weekend, magari.
Il problema è che se sei abituata a seguire l’istinto, gira che ti rigira è sempre l’istinto che avrà la meglio.
Così mercoledì 2 Dicembre 2015, mi sono ritrovata su un pullman diretto a Roma con un ritardo di 45 minuti. Certo, aver vissuto nei pressi di Via Appia mi ha facilitato nel raggiungimento del luogo, ma ciò che non ho potuto evitare è stata la marea di gente che (ovviamente) era accorsa.
Entro nella Feltrinelli, accaldata, quasi senza fiato e dopo aver barbaramente ma accidentalmente urtato svariate persone.
Entro e sento la sua voce e quasi non riesco più a muovermi: nonostante non ci sia il televisore a fare da intermediario, la sua voce è davvero calda e avvolgente.
Mi riprendo un attimo e cerco di avvicinarmi il più possibile cercando di non irritare l’animo degli astanti.
La sua lezione è già cominciata, ma da poco credo.
Vorrei fare una foto, ma non voglio distrarmi.
Mentre le diapositive si susseguono e la sua voce mi avvolge, sfoglio il libro, cerco, confronto. Il tempo scorre veloce e quasi non me ne accorgo.
Anche stavolta mi aspetta un’interminabile fila, certo ne varrà la pena, in più mi ha raggiunta una mia amica che oltretutto mi ospiterà per la notte.
Le cedo la macchina fotografica, meglio che ci prenda confidenza.
La fila sembra non scorrere affatto e come mi capita sempre in queste occasioni, mi ritrovo a chiacchierare con quegli sconosciuti che come me sono in attesa dell’incontro.
Tre ore sfilano via a colpi di stanchezza e battute piccanti su Alberto, finché finalmente la mia amica mi trascina via: è il nostro turno.
Bene, mi dico, sono un po’ emozionata, ma ne ho incontrati tanti.
Ma tra quei tanti, pochi sortiscono su di me l’effetto che mi fa Alberto.
Le mani mi tremano e l’emozione sale, ma mi rassicurano sulla perfezione del trucco.
A me del trucco non interessa nulla, ma grazie comunque.

Alberto mi sorride, mi fa cenno di avvicinarmi a lui.
E’ visibilmente stanco, eppure mantiene un atteggiamento così cortese e conviviale che faccio fatica a credere che sia un essere umano qualunque.
Mi porge un paio di domande, chiacchieriamo un po’ del libro e poi succede ciò che temevo: inizio a parlare a macchinetta (effetto collaterale del nervosismo).
Lui non si scompone minimamente, anzi ascolta e prende i bigliettino da visita che gli cedo. Dopodiché, la mia facciata professionale crolla: se non lo faccio ora, non lo faccio più.
– Senti, Alberto, io dopo tutti questi anni d’amore ti devo chiedere una cosa. Ti posso abbracciare?
Mi guarda un po’ interdetto, mi sorride e con uno sguardo assolutamente dolcissimo risponde:
– Beh, queste cose non devi mica chiedermele.
L’inizio della fine.
Gli butto le braccia al collo e ne approfitto per accarezzare i suoi morbidi e profumatissimi capelli (sì, l’ho fatto davvero). Lui ricambia teneramente l’abbraccio e le sue braccia scultoree mi fanno sentire come Psiche nella scultura del Canova o come la donzella de “Il bacio” di Rodin.
Un attimo che vorrei non finisse mai.
Mi sciolgo svogliatamente dall’abbraccio e riprendiamo le chiacchiere interrotte.
Qualche risata, la foto di rito ed anche l’autografo.

Ancor più controvoglia lo saluto e mi congedo.

Io e la mia amica andiamo via stanche ed affamate e corriamo a svaligiare il McDonald di Colli Albani.
Ma la felicità che ho dentro, mi fa sopportare tutto.

Fa freddo e siamo molto lontane da casa, ma sono così emozionata che non riesco a seguire le dinamiche della realtà.

E’ proprio vero che non si è mai abbastanza grandi per emozionarsi.

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